Quando varcai per la prima volta la soglia di questa vecchia casa, così mi sembrava di primo acchitto, quasi uno stabile ex-Anas, con in mano il foglio di viaggio della mia prima destinazione, era notte fonda, ero stanchissimo (e così anche il piantone che mi aprì) perché
c'era voluto tutto il giorno da Bologna per smistare le nuove assegnazioni, e non ebbi molto tempo per apprezzare, o per iniziare a farlo, l'edificio nel quale ero appena stato accolto.
A dire la verità, per un curioso gioco del destino, anche l'anno prima ci ero entrato quasi per caso, ma era stata una faccenda di pochi minuti, ero un turista qualsiasi e tutto pensavo meno che di lì a dodici mesi sarei tornato a vivere proprio lì. Il piantone, dicevo, e un paio di volontari assonnati ma ben disponibili, approntarono in quattro e quattr'otto una branda, e tirarono fuori un paio di lenzuola pulite. A quell'ora, altro non si poteva pretendere: mi piazzarono in mensa, buonanotte e arrivederci. L'indomani mattina ebbi finalmente il mio posto letto, un armadio, una scarpiera e un comodino. Mentre mi sistemavo, mi guardai intorno. Le pareti bianchi ingessate e semigrezze, e una piccola scrostatura che rivelava il rivestimento interno di cannette. Il pavimento in cotto con dossi ai lati e cunette al centro, quasi un viottolo di campagna. Alzai la testa, le volte arcuate. Battei un piede, il solaio tremava. E poi, le porte con specchio imperfette, le finestre in legno riverniciato da un po' e le persiane affaticate dall'erosione della salsedine. Era maggio, e di lì a qualche mese avrei apprezzato anche gli spifferi potenti che si insinuavano da spiragli insospettabili.
Scesi al piano di sotto per le scale in pietra serena (o porfido, chissà) con la ringhiera in ferro battuto. Sfiorai il portoncino di ingresso il cui vetro satinato e lavorato doveva essere lo stesso da qualche decennio. Nei due uffici, le Olivetti Linea 98 e gli schedari avevano qualcosa di antico e romantico ma erano senza dubbio intrusi. Il secondo, quello del comandante, dava a levante ed era esattamente sotto la mia stanza. A proposito, credo che la vista sul mare fosse una cosa riservata a pochi anche tra i riminesi.
Forse fu lì che mi accorsi che quello non era un semplice presidio, e non solo una splendida villetta adibita a caserma forse in maniera un po' frettolosa. Si chiama Villa Bavassano, anche se ancora non lo sapevo. Grazie a lavori in economia o (per fortuna, dico oggi) mai fatti per la parsimonia della pubblica amministrazione, la casermetta era rimasta un accesso a un passato recente. Mi affacciavo, e respiravo la stessa aria dei primi abitanti, più o meno cent'anni prima. La spiaggia era protetta da una barriera minima e, ampiezza a parte, doveva essere la stessa sulla quale i benestanti dell'epoca passeggiavano con parasole e abiti lunghi.
Guardai meglio nell'anticamera del piantone, e poi dalla parte opposta. Il piccolo patio colonnato era tamponato con grate e foratini, come un fondello qualsiasi, con irriverenza blasfema, e un annesso, un appartamento intero, era stato brutalmente appoggiato sul lato nord. Ma ormai avevo capito di avere il privilegio di vivere una piccola porzione di storia, quella della rinascita edilizia di Viserba e dei soggiorni al mare per i fortunati che potevano goderne i benefici influssi sulla salute e sull'umore.
Quella splendida palazzina liberty si coniugava perfettamente con quanto vivevo in quel momento: una nuova vita nel posto più accogliente del mondo, privilegiato nell'abbraccio di mura storiche ispirate dal ritorno alla natura e a uno stile di vita sano. Più tardi, scoprii, con contenuta sorpresa, un nesso tra quella stessa villa e una signora perugina vilipesa e infamata: una violenza di genere ante-litteram, questioni delle quali mi sono occupato e mi occupo, e che ritornano spesso anche nelle mie storie.
Perché l'incanto debba finire, è una domanda da annoverare forse tra i più grandi quesiti dell'esistenza stessa. Se esiste un motivo perché io sia capitato lì in quel momento e in quella affascinante costruzione, ebbene, non l'ho ancora scoperto; non so se mai lo scoprirò e forse è solo per questo che ne conservo una memoria così nitida.
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