venerdì 12 luglio 2013

L'Uomo d'Acciaio, recensione

Che Superman fosse ebreo era risaputo. Da un altro pianeta, più bello, più forte, più giusto, più buono, più tutto di tutti. Un aiuto a chiunque. Un liberatore, tratti messianici evidentissimi. E poi Joe Shuster era un fuoriuscito ebreo tedesco, ne sapeva di persecuzioni e riscatti.
Con la pellicola di ieri si è andati oltre: il caro Kal-El, al secolo Clark, ha gettato la maschera diventando un vero e proprio Salvatore. Si rivela al mondo a trentatré anni, disconosce suo padre terrestre (il mite Kevin Costner) per quello vero, quello alieno cioé: il guerriero Russel Crowe. E affronta l'antagonista più temibile, un deviato della sua stessa razza: Shai-Tan, l'Avversario per eccellenza.
Il finale è apocalittico, in confronto l'11 settembre è un pic-nic, e fa quasi sorridere che, dopo tanta distruzione, l'Uomo d'Acciaio si adoperi per salvare una famiglia sotto minaccia diretta del nemico, neanche fosse un rapinatore qualsiasi.
Chi salva una vita salva il mondo intero, e finisce così, con la City di Metropolis rasa al suolo (pare) senza vittime, se non il disgraziato villain, con il collo tirato come una gallina.
Se fosse un thriller sarebbe insufficiente, ma è un film d'azione anche se cerca di scavare nei turbamenti giovanili di Clark, e per questo merita oltre la sufficienza: 7.

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