mercoledì 20 gennaio 2016

Salvate il soldato Ryan, mia recensione


Appena apprezzato il Ponte delle Spie, preso da un attacco di Spielberg-mania, non ho potuto fare a meno di ripescare nella filmografia del Maestro e sono tornato a vedere "Salvate il Soldato Ryan" (grazie a Netflix). Nonostante ne avessi un ricordo nitido, ero proprio curioso di verificare cosa mi avrebbe trasmesso quindici anni dopo la seconda o la terza volta che lo vidi.
In realtà c'è anche un altro motivo, ma per il momento preferisco non rivelarlo.


Un manipolo di Rangers, guidati dal capitano Miller, è selezionato nei giorni successivi allo sbarco in Normandia per trovare e riportare a casa il soldato James Ryan, l'unico sopravvissuto di quattro fratelli tutti morti in battaglia. Inizialmente ritrosi sul fatto di rischiare cinque vite per salvarne una, i volontari si inoltreranno oltre le linee nemiche, dove il ragazzo avrebbe dovuto trovarsi con i suoi, allettati dalla possibilità di rientrare in Patria prima del previsto. In effetti i paracadutisti furono lanciati il giorno prima dello sbarco per fare da guastatori ma ci furono degli errori e molti si dispersero. Risparmio il finale per chi non l'avesse ancora visto o intenda rinfrescare la memoria.


La sequenza iniziale dello sbarco è memorabile e terrificante. Non c'è musica, se non il rumore secco dei proiettili sui cavalli di frisia e delle bombe. Il montaggio puntuale e frenetico segue la conquista della spiaggia Omaha Beach metro dopo metro (in realtà i Rangers conquistarono più ad est la Pointe du Hoc in un altrettanto cruento combattimento, a questa spiaggia fu destinata una compagnia in supporto) e non sono risparmiati particolari cruenti dell'una e dell'altra parte.


Ci vuole un vero Maestro per trasporre una sequenza così.
Superato il sanguinoso prologo solo con la convinzione che la realtà fu senza dubbio peggiore, il viaggio del manipolo inizia e ognuno troverà il compimento della sua vicenda personale.
La battaglia finale non è meno terrificante e costruita con sapienza e ritmo certosini: solo chi sa fare cinema può riuscire a portare sullo schermo emozioni come se fossero immagini.
È vero, i Buoni sono Americani e i cattivi Tedeschi, anche se ho visto ragazzi di entrambe le parti morire alla stessa maniera. Ma mi chiedo: non fu così? Quello sbarco non ha salvato il Mondo intero dall'Oscurità, dai Campi di Sterminio, dall'odio e dal razzismo divenuti sistema?
L'immagine romantica degli Americani, delle loro Jeep, delle gomme da masticare e della stupefacente macchina bellica non è del tutto immeritata, e forse non solo effetto della propaganda se ancora oggi associamo quell'immagine con il bene.


All'epoca di uscita del film Steven Spielberg, il figliolo-prodigio, era già adulto da qualche anno, per la precisione dai tempi di Schindler's List, e, per me, lo era comunque già da tempo.
In effetti, ho già detto e ribadisco che non capisco certe prese di posizione molto critiche, che lo accusano per esempio di buonismo e banalità. Mi sembra di andare a cercare il pelo nell'uovo: se buonismo e banalità significano costruire storie che lasciano ad occhi aperti, che commuovono ed entusiasmano facendoci soffrire con e per i protagonisti, che ci lasciano tristi quando scorrono i titoli di coda perché vorremmo saperne ancora di più, allora siamo d'accordo. 
Per me invece queste caratteristiche si trovano solo nel cinema d'eccellenza, nel quale nulla è casuale e tutto è costruito con un'attenzione fin dal minimo particolare.
Che lui ammicchi allo spettatore mi sembra una scelta artistica più che utilitaristica, quella scelta per cui ogni narratore possa scegliere la sua maniera di raccontare, e ne consegue che lo spettatore possa scegliere anche lui, in completa sovranità.
Ma dico: forse qualcuno scrive per non essere letto? E perché lui dovrebbe filmare per non essere visto?
Steven, ma non sarà solo invidia?

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