Con questo suggestivo incipit, Robert Harris introduce il finale del suo mirabile romanzo "Fatherland" (1992), un giallo ucronico magistrale nella costruzione e altrettanto coinvolgente nella trama, lasciandosi andare spesso a pennellate poetiche in uno sfondo comunque sempre oscuro e inquietante.
Non c'è consolazione per il lettore, perché i luoghi comuni si mischiano alla realtà che fu e a quella che sarebbe stata, in un unicum che sempre intimorisce fin dal linguaggio: le cariche, le istituzioni, le feste comandate di un regime autoritario dove sembra non esserci spazio neanche per un sorriso, e dove la corruzione ancor più efferata trova necessariamente spazio nelle anime e nelle azioni di personaggi sordidi e crudeli.
Nel 1964, la Germania ha vinto la Seconda Guerra Mondiale e conquistata l'Europa. Gli Ebrei sono scomparsi, ma il Reich è ancora impegnato sul fronte orientale dopo oltre due decenni e la colonizzazione dello spazio vitale a Est è stata un fallimento.
La vecchia gerarchia sta cedendo e Hitler auspica un riavvicinamento agli Stati Uniti sconfitti ma lontani, del presidente Joseph Kennedy.
L'obersturmbahnfuhrer della Kriminalpolizei, un dipartimento delle SS, Xavier March è incaricato delle indagini per l'omicidio di un altissimo funzionario dello Stato, ripescato nudo nel lago Havel a margine di un esclusivo quartiere residenziale.
March è disilluso delle pratiche del regime e trova motivazione solo nelle visite al figlio Pili che vive con la ex-moglie divorziata. Fin dall'inizio trova ostacoli impensabili per un investigatore del suo rango, e l'aiuto inaspettato della giornalista americana Charlie Maguire. Lui crede che sia proprio per questo che anche la Gestapo inizi a tenerlo d'occhio, ma dovrà ricredersi in maniera molto più definitiva.
Un romanzo straordinario, un autore bravissimo, un'intuizione per una storia che non ha perso il suo fascino a trent'anni dalla sua prima uscita.
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