Per me che sono cresciuto a Nutella ed eroi e supereroi americani, e ho un (giustificato) pregiudizio nei confronti del cinema italiano, andare a vedere Lo chiamavano Jeeg Robot poteva aumentare un divario già incolmabile, almeno in apparenza. Eppure, non è stato così.
Enzo, borgataro emarginato, si immerge in un bidone radioattivo nel fuggire dalla Polizia e acquisisce una forza sovrumana. Prova solo a vivere un po' meglio, finché non incontra Alessia, una ragazza ingenua ma prigioniera di un difficile passato, grazie alla quale inizia una lotta personale con Zingaro, il boss locale in ascesa, fino a superare tutta la sua accidia.
Prima di tutto, il film mi è piaciuto: la sua buona fama è meritata e rende giustizia alle aspettative, e questo è già sufficiente a farmi rimangiare la mia tonitruante premessa. Un bellissimo tentativo di cinema diverso dai panettoni o dall'opposta imposizione intellettuale, che dimostra non solo che è possibile ma che ci si può avventurare in ogni genere. Che sia nato il filone dei super-spaghetti-heros?
Ma mi piace spiegare il perché. I supereroi che amavo non sono quelli di oggi, supermuscolosi e dotati di poteri tali che uno solo di essi basterebbe a risolvere gran parte di problemi dell'umanità. I miei erano umani, molto umani; erano ragazzi complessati che sognavano il loro riscatto dalla vita quotidiana, così come ognuno di noi sogna, a volte, di poter essere più forte di quel prepotente, più bello di quel rivale, più intelligente di quel superiore; impotenti invece nel riuscire a cambiare alcunché. E poi, per un miracolo, come l'azione di un bidone radioattivo o di un meteorite o qualcos'altro può essere, si ritrovavano ad avere delle capacità incredibili e cominciavano ad agire, spesso in malo modo. Infatti, non era questo il vero cambiamento, perché il riscatto iniziava quando, grazie o in concomitanza al'incidente, cominciavano a credere in loro stessi e nelle loro capacità, risolvendo così la loro vita in nuove convinzioni, queste sì veramente super-rivoluzionarie. Superare se stessi e arrivare a vivere come si vorrebbe: non è questo essere super-eroi?
Mi ricordo delle prese in giro e delle occhiatine di chi, miope, dava risalto solo agli aspetti più appariscenti e sottovalutava quelli che, per me, erano formidabili e fondamentali, solo perché questi storie, questi personaggi, non erano abbastanza colti, o impegnativi, o nobili. Anche l'Iliade e l'Odissea parlavano di superuomini e di imprese mirabolanti, e non mi suscitavano certo minore emozione solo perché dovevo studiarle.
Questo film ha reso giustizia ai miei sentimenti, riuscendo anche a tenere fuori quello snobismo intellettuale che di solito si impossessa di successi del genere, rivalutandone argomenti e motivazioni.
Leggo da altre parti che il potere del cinema è nell'aspetto e non nel contenuto: in parte condivido questa affermazione, perché un film è una visione del mondo dagli occhi dell'autore ma, nella restante parte, ci deve essere qualcosa che viene mostrato non solo perché è affine al gioco dell'immagine ma perché rappresenta sul grande schermo quell'idea, quel sentimento, quell'intenzione che sintetizza la storia.
Mi permetto un solo appunto: Zingaro, il Joker nostrano, nella sua psicopatia ha due vocazioni, una ironica e l'altra realmente drammatica, e non è chiaro quale delle due prenda il sopravvento. Naturalmente preferisco la seconda: se così non fosse, l'altra snaturerebbe tutta l'intenzione di questa esemplare pellicola.
Mi permetto un solo appunto: Zingaro, il Joker nostrano, nella sua psicopatia ha due vocazioni, una ironica e l'altra realmente drammatica, e non è chiaro quale delle due prenda il sopravvento. Naturalmente preferisco la seconda: se così non fosse, l'altra snaturerebbe tutta l'intenzione di questa esemplare pellicola.
Due scene cult, ex-aequo, entrambe maledette: quella del furto del bancomat perché sintetizza il personaggio, e quella della rapina al furgone, incredibile mix di inventiva italo-americana.
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