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Il 26 marzo del 1938, il fisico Ettore Majorana lascia due lettere in cui annuncia la sua scomparsa. Da quel momento, nessuno in effetti lo vede più.
Majorana era un fisico geniale tanto da oscurare, secondo Sciascia, l'astro italiano della ricerca, Enrico Fermi.
Addirittura il ragazzo era istintivo nelle intuizioni quanto il secondo era disciplinato nella ricerca; l'uno iniziava dove l'altro finiva.
Ma il regime, o direi meglio: la burocrazia, aveva già scelto chi doveva rappresentare l'Italia e lui stesso non mostrava interesse alla carriera luminosa.
Sciascia non conduce un'indagine poliziesca ma una sopraffina introspezione nel carattere e nelle laconiche testimonianze, freudianamente analizzando anche gli ultimi scritti.
Ne esce la stupefacente rivelazione di un giovane terrorizzato dalla letale efficacia dell'arma atomica, il cui genio stesso gli impone, senza alcuna possibilità di contrattazione, di cessare qualsiasi ricerca per non contribuire allo sterminio dell'umanità.
Una chiave di lettura sconvolgente, altrettanto geniale, che capovolge i luoghi comuni non solo sul misterioso protagonista ma sul significato autentico della ricerca scientifica, paragonata, non senza fondato ragionamento, alla peggior macchina di distruzione dell'umanità, il sistema dei lager nazisti: a cui, a questo punto, contende il triste primato.
Accettato tutto ciò, pensare che, alla fine, ci sia stato ben poco di misterioso sulla sua scomparsa e che la clasura volontaria nel convento sia in effetti la soluzione più ovvia, diventa frutto di un ragionamento ordinario.
Rimane la pochezza delle investigazioni ufficiali e ufficiose, e la vacuità tutta italiana di certe imposizioni mussoliniane ("Voglio che sia trovato"): ma il Duce avrà saputo o no? Non credo, però credo che molti sapessero dove poterlo andare a cercare.
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